martedì 19 ottobre 2010

Fluire, come un fiume.

Quando ero bambina, mio padre raccontò che il nostro antennista di fiducia era caduto da un tetto.
"Non si è fatto nulla", aggiunse sollevando le spalle.
Pare che il suo trucco fosse semplice: in volo rilasciava i muscoli. Con questo accorgimento preveniva quasi sempre la frattura delle ossa, come se il muscolo non indurito facesse da cuscinetto, non da ulteriore strato rigido e duro frapposto tra terra e osso.

Sorrido, nel pensare a come il ricordo riemerga allo stato cosciente proprio in questi giorni.

Dolore. E arriva la contrazione.
Dolore fisico. E i muscoli si irrigidiscono, i nervi si tendono.
Dolore emotivo. E l'atteggiamento verso l'esterno diviene duro.
E' la reazione immediata, non-mediata dall'intervento del pensiero. Forma di autotutela.
Se qualcosa causa "pain" (in questo caso il termine inglese risuona meglio), ecco che mi richiudo in me stessa.

Ma è una forma di difesa solo apparente.
Come una preda che crede di nascondersi al cacciatore chiudendo gli occhi.

Contrarre significa bloccare, accumulare, reprimere.

Fluire: questa deve essere la via da percorrere.
Lasciar scorrere anche il dolore, fa in modo che la causa del male si diluisca a sciolga nel flusso caldo e dolce dell'amore.

giovedì 30 settembre 2010

Ricordi che profumano d'antico.

Per i cinque anni delle scuole elementari ho infilato le braccia nelle bretelle di una cartella.
Di quelle squadrate, indeformabili, con lo schienale rigido.


Già dal secondo anno i compagni sfoggiavano colorati zaini invicta.
A lungo ho desiderato uno di quegli zaini. Per uniformarmi ai bambini con cui mi trovavo a interagire, per non distinguermi da loro. O forse perchè solamente si desidera quello che non si possiede ancora.
Ma mia madre ha tenuto duro.

Due decenni abbondanti sono trascorsi da quegli anni. Tante borse, tante valigie, tanti zaini sono stati comprati, utilizzati, dismessi, dimenticati e buttati.

Mentre attendo che il gate del mio volo apra, rovisto nella borsa alla ricerca del biglietto aereo, scartando al tatto decine di oggetti che non corrispondono a quanto sto cercando.
E mi scopro a ricordare con affetto quella vecchia cartella indistruttibile che insegnava a tenere tutto in ordine, quasi incastrato, così da riempire ogni spazio e bilanciare il peso. La schiena doveva stare dritta, le spalle erette e non incurvate: lo schienale non assecondava posture ingannevolmente confortevoli.
Niente di superfluo trovava ospitalità in quegli scomparti indeformabili: solo il giusto e necessario.

Ora posso dirlo.
Grazie, mamma.

giovedì 2 settembre 2010

The drum.




Incredibile la presa di coscienza di quanto il Silenzio possa essere prezioso.




Il Silenzio non solo come assenza di rumore artificiale, di quel sottofondo a cui non si fa più nemmeno caso, ma che ci accompagna nella nostra vita quotidiana tra il cemento.
Il Silenzio come non-presenza di musica, di voci che parlano attorno e dentro di noi.
A tratti il Silenzio lo si può percepire a tal punto che assume consistenza corporea.
E allora il Silenzio diventa qualcosa che meravigliosamente...esiste.
Silenzio come consapevolezza che si allarga.

Ma ci sono anche suoni che aprono squarci, arrivano dentro, colpiscono. E gettano luce.

Eccone uno.

Una pelle di animale bagnata in acqua viene tesa su di una cornice tonda in legno. La pelle seccandosi acquisisce la tensione necessaria a produrre il suono desiderato.
Un suono sordo, profondo, vibrante.
La semplicità del tamburo è solo apparente, perchè il suo potere evocativo è difficilmente paragonabile ad altro strumento.
Risuona, risuona con ciò che di primordiale e sincero c'è in noi.

In compagnia del Silenzio, in compagnia del Tamburo, cresce la decisione con cui si presenta la consapevolezza dei valori in cui credo.
Valori non ricevuti per educazione, non assimilati tramite passaggio osmotico dall'ambiente in cui sono cresciuta, ma presenti come in modo innato in me.

Arriva l'acqua, e i semi si risvegliano.
Cosa farne ora, di questi semi? Come coltivarli, pur mantenendo i piedi ancora ancorati al cemento?
Quando un compromesso arriva a soffocarli, a togliere loro luce e nutrimento?

lunedì 30 agosto 2010

Inipi. E molto, molto di più.


La paura in sè è un sentimento buono. E' sano provare timore, lasciare che l'adrenalina fluisca facendo vibrare le membra in cui scorre. Paura come trampolino di lancio, non come masso che ancora le caviglie al suolo e non fa spiccare il volo.

Ho visto.
Ho ricordato qualcosa di me che giaceva sepolto.
Ricordato, perchè già sapevo.

Sono diventata chi la società in cui vivo mi ha chiesto di diventare. Ci sono delle regole da seguire per essere serenamente integrati in ogni gruppo. Stavo percorrendo (percorro) una strada pericolosa: conduce all'illusione di agire rettamente, perchè in questo modo vengo accettata nei branchi con cui mi trovo ad interagire.
Ma ce ne sono altri, di branchi. Ora lo so.

Quarta doccia da sabato sera.
Nel piatto di ceramica bianca un groviglio di fili d'erba, che non è defluito nello scarico.
E' rimasto intrappolato in qualche incavo del mio corpo per tutto questo tempo: dono prezioso lasciatomi da Madre Terra, che mi ha accolta tra le sue braccia premurose.
Lo scorgo, lo raccolgo e il contatto tra le dita e l'erba riporta alla mente dei flash back.
Le immagini mi trascinano indietro, in uno spazio senza tempo e senza luogo, dove sono stata.
Una realtà sorretta da leggi diverse rispetto a questa in cui mi trovo ora.
Una dimensione in cui mi sono incontrata,
 e mi sono guardata dritta negli occhi.

sabato 19 giugno 2010

Fortunago, Pavia, prime ore di un pomeriggio.



Davanti agli occhi, un quadro senza cornice.

Un dipinto vivo.

Tanto bello da non poterne sostenere la vista per più di brevi momenti.



E allora riabbasso il viso su questo foglio, e riprendo a scrivere. Confortata dalla consapevolezza che, sia che la guardi direttamente sia che chiuda gli occhi, l'immagine continuerà a esistere. In me e fuori di me.

E mentre il vento fa risuonare le fronde della quercia che dalla terra si protende verso il cielo, in primo piano sulla destra del mio quadro... all'improvviso realizzo che ad accarezzarmi con tale premurosa dolcezza è il medesimo vento.
E allora capisco che anche io sono parte del quadro.

Il quadro è tutto attorno a me.
Il quadro è qui, è ora: è la mia vita. Sento che tutta la mia vita in questo momento è nelle mie mani.
Perchè, anche se non stringo nulla tra le dita, anche se non c'è nulla che io debba portare a termine proprio adesso, anche se nulla devo dire o fare, altro non esiste se non me stessa nel qui e nell'ora.

Siedo in un prato verde di erba nuova, rosso di papaveri e viola di lavanda. E null'altro ha più importanza.

Api e insetti mi ronzano accanto, ma non credo mi pungeranno, perchè in questo momento non si accorgono della mia presenza: non sono un'intrusa, come spesso accade in certi luoghi e situazioni.
Sono parte del quadro.
E l'ape ha lo stesso valore del fiore e il fiore dell'albero e l'albero della collina e la collina di me.

Meravigliosi nuvoloni grigi promettono un temporale. Lo sento arrivare nei brividi che si rincorrono sulle mie braccia.

Non conserverò questo quadro su una parete di casa.
Non importa per quanto a lungo potrò ancora osservarlo.
Non sono capace di scattare fotografie da riporre nell'album della mente.
Sono solo in grado di vivere e poi lasciare andare.
Nemmeno posso raccogliere il ricordo delle sensazioni che sto provando. Un'altra condanna: è solo qui, solo ora. Solo per me, quindi.

Fino alla prossima, illogica allegria.

martedì 18 maggio 2010

Something in the shape of gray.


Sapere che "qualcosa" che da tempo bisbigliava gentile nella mente, oggi è un po' più vicino.

Non abbastanza da comprendere di cosa esattamente si tratti. Sufficientemente da poterlo sfiorare nel buio.


... . . .

Forse solo un cirro traslucido, che si dissolverà nel cielo, al soffiare del primo vento gentile.

Forse un consistente cumulo, che, alimentato da una corrente ascensionale, si trasformerà in turbolento nembo, portatore di fertile pioggia primaverile.

The wind will decide.

martedì 11 maggio 2010

Poche proteine animali, tanto yoga?


Una formichina si aggirava esausta sul pavimento di casa. La guardavo poco fa.





Sabato non ho resistito al richiamo del Sole.
Appena si è fatto vivo, sgomitando tra i nuovoloni, ho infilato in una borsa di tela la coperta doubleface impermeabilizzata e un buon libro, e mi sono precipitata al parco: nemmeno dieci minuti ed eccomi senza scarpe sull'erba umida, appena fuori il limitare dell'ombra di un robusto albero.

Il mondo da quella prospettiva è sempre così appagante... dalla posizione distesa gli occhi si riempiono solo del Cielo, con le sue nuvole bianche in passaggio più o meno veloce sul fondo azzurro, il Sole che segue instancabile il suo percorso quotidiano.
Scelgo sempre la stessa posizione per srotolare la mia coperta da prato, perchè mi piace che nel campo visivo entrino anche le fronde di una grossa Quercia.

Ero lì, a bearmi dei tanto attesi raggi di Sole.
A percepire la viva sofficità del terreno, che sosteneva premuroso il mio corpo, nei punti di contatto col suolo.
Appagamento puro.
La sensazione di un legame ristabilito con  Madre Terra.

Sabato, alcune formichine sono rimaste intrappolate nella mia coperta da prato. Le ho portate fino a casa senza accorgermene. Non hanno gridato, non mi hanno pizzicata, non si sono fatte sentire in alcun modo, le stupide!
Le ho viste la sera stessa, gironzolare senza riuscire ad orientarsi sulle piastrelle di terracotta. Sapevo bene che, senza poter rintracciare le tracce di feromoni lasciate dietro al loro passaggio, anche se le avessi portate nel giardinetto qua fuori alla porta di casa, non avrebbero avuto lunga vita, lontane dalla comunità.
Le ho fissate per un po'. Poi ho deciso di lasciarle al loro destino (destino modificato dal mio passaggio!), sperando di dimenticarmi presto di loro.

Rientrando dal lavoro, poco fa, rivedo una delle mie formichine.
Camminava lenta lenta... a zig zag, esausta.
Un sottile, sciocco (?) e ingiustificato (?) senso di ingiustizia serpeggiava dentro lo stomaco.
Che fare? Voltarmi di nuovo e lasciare la mia formichina alla sua (nuova) sorte, oppure interferire per la seconda volta, alleviandole le pene?


L'ho schiacciata.